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Il discorso tenuto dall’on. Diego Crivellari in occasione del 71° Anniversario in ricordo delle vittime dell’eccidio di Villamarzana.

 

Villamarzana 18 Ottobre 2015

Signor Prefetto, Eccellenza Mons. Vescovo, Onorevoli Parlamentari, Signor Presidente della Provincia, Signor Sindaco di Villamarzana, Signori Sindaci delle Città e dei Comuni del Polesine, Autorità Civili e Militari, Cittadine e Cittadini,

è con viva, grande emozione che abbiamo raccolto l’invito a prendere parte a questa cerimonia e ad intervenire per celebrare i martiri di Villamarzana. Un evento che dura e che continua a pesare, non potrebbe essere altrimenti, sul nostro presente.

Villamarzana: monumento vivente, nodo inaggirabile, punto di partenza e luogo di approdo solenne, per tutti noi. La nostra storia passa da qui. La nostra storia e il nostro futuro passano da qui, a più di settant’anni di distanza.

Villamarzana è un nome che ogni anno rinnova la nostra memoria, la nostra coscienza di donne e di uomini, di cittadini della Repubblica, di democratici, di antifascisti.

Villamarzana è un luogo, una storia, una tragedia marchiata dal segno indelebile dalla barbarie fascista: un paesaggio reale eppure immediatamente simbolico, morale, civile, un luogo della mente, un groviglio di sentimenti che torna ad interrogarci, ancora una volta, che riaffiora puntualmente e obbliga tutti noi a ricordare e a riannodare il filo di una memoria condivisa. Una memoria condivisa soltanto se e perché radicalmente fondata sui valori della democrazia e della convivenza civile, dell’uguaglianza e della libertà.

Villamarzana è un ricordo vivo, lancinante, un dolore che rimane più attuale che mai, una ferita, un crimine che non conosce prescrizione. Villamarzana è il nome dei suoi 43 martiri, il nome delle vittime innocenti che non cessiamo di scandire e di onorare. “A sei a sei furono fatti uscire i patrioti, legati ed oltraggiati…”, è stato scritto e raccontato dagli storici: “i colpi di grazia annunciavano ai prigionieri, di là dal muro, che era giunto il momento per altri sei…..”.

Eccoci dunque in questa piazza, in questo luogo del dolore e della memoria, eccoci a coltivare il dovere della memoria e il dovere della testimonianza civile. Ricordare e testimoniare un impegno a favore della nostra democrazia, che deve vederci uniti e consapevoli: un impegno a favore dell’antifascismo e dei valori sempre attuali su cui si fonda la nostra democrazia repubblicana, perché la verità storica – vogliamo ribadirlo, dobbiamo ribadirlo – deve essere custodita e tramandata alle nuove generazioni e non può mai passare in secondo piano, né perdere la propria essenziale valenza, magari nel nome di qualche malintesa “riconciliazione” o “concordia” nazionale. Non esistono revisionismi o scorciatoie politiche che possano attenuare o relativizzare il peso e l’importanza di quanto è accaduto a Villamarzana in quella giornata del 15 ottobre 1944.

Ricordare per dare nuova linfa al nostro presente e al nostro futuro. Non si tratta di retorica. Non si tratta di pensare soltanto ad una cerimonia che esaurisca la propria valenza e il proprio significato nello spazio di un mattino o di una giornata di festa. L’attualità di Villamarzana è l’attualità del sacrificio. La democrazia vive di questi riti e vive della propria memoria, la democrazia è un racconto, una grandiosa narrazione collettiva e continua, trasversale, che ritrova nelle sue pagine più dolorose la ragione più profonda del proprio esistere, la propria necessità. La democrazia è culto della vita e di una sempre ritrovata volontà di vivere, che rinasce dalle ceneri della guerra, dell’odio, del conflitto che divide fratello da fratello. La lotta antifascista rimane ancora oggi il migliore fondamento del nostro vivere civile.

Come ha ricordato opportunamente qualche anno fa lo storico Sergio Luzzatto nel suo libro “La crisi dell’antifascismo”, molti, troppi sono stati in questi anni i tentativi, venuti da più parti, di consegnare l’antifascismo ad un passato polveroso e sempre più lontano, i tentativi – spesso subdoli, talora frutto di interessate elaborazioni intellettuali – di rendere l’antifascismo una sorta di reperto archeologico o meglio ancora di delineare i tratti di una democrazia post-antifascista: ecco, allora, il rifiuto di riconoscere alla parola ‘fascista’ una qualsiasi rilevanza politica o comunque di relativizzarne la portata; l’emergere di una ideologia della memoria che si propone di parificare il vissuto degli italiani nelle drammatiche vicende della guerra civile del 1943-1945, in un abbraccio che cancella le identità contrapposte, le differenze, e in definitiva livella pericolosamente i valori per i quali combattevano gli uni e gli altri; la proposizione di un pacifismo a-storico che, in nome del rifiuto della violenza, mette sullo stesso piano partigiani e repubblichini di Salò; il rifiuto di riconoscere la guerra partigiana quale elemento identitario del nostro paese; l’esaltazione della “zona grigia”, cioè della maggior parte degli italiani, che si sarebbero limitati ad assistere, senza parteciparvi, alla guerra civile combattuta dagli estremismi rossi e neri. Potremmo continuare, ma ci fermiamo qui. Gli esempi sono tanti e ad ognuno potremmo collegare nomi e sigle diversi.

Scriveva Sergio Luzzatto: “La qualità etica dei valori in nome dei quali le brigate partigiane (anche le Garibaldi) fecero la Resistenza risiede precisamente nella loro incompatibilità con i valori in nome dei quali le brigate nere spalleggiarono la Wehrmacht e le SS nell’opera di repressione del banditismo antifascista”. E così prosegue: “Dobbiamo rimpiangere che operai comunisti delle città italiane si siano fatti gappisti e abbiano reso la vita impossibile agli occupanti tedeschi, mentre l’esistenza di Hitler e dei capi nazisti non è stata minacciata, fino all’entrata dell’Armata rossa a Berlino, se non da una trama putschista di alti ufficiali aristocratici?”. E ancora, per concludere: “Mi riesce più gradito riconoscere nella guerra partigiana la carta di identità del paese in cui sono nato – afferma lo storico – e mi riesce necessario pensare all’Italia della Resistenza come al terreno dove gli Italiani devono tracciare ‘ora e sempre’ i confini non negoziabili della loro identità, la soglia del non rinunciabile da sé”. Parole e chiare illuminanti, che invitano a riconoscere la necessità di tenere viva la memoria storica, ma nel contempo di alimentare la ricerca, la critica, le fonti di conoscenza e le sedi di discussione, senza ambiguità né reticenze strumentali, senza cadere o ricadere nelle facili tentazioni autoassolutorie tipiche di certi settori della stampa e della politica, senza attenuare le responsabilità di coloro che si sono macchiati di atrocità e di coloro che, magari ancora oggi, tenderebbero a giustificare anche in parte simili comportamenti, nel nome di aberranti concezioni dell’ordine e dell’onore.

I segnali incoraggianti tuttavia non mancano. Nella società italiana e nella società polesana sono molteplici le esperienze, le presenze, i presidi che conducono in parallelo un prezioso lavoro di scavo e di ricerca della nostra storia recente e che trovano nel secolo appena trascorso, nelle vicende che hanno tragicamente segnato l’ultima guerra mondiale e la lotta partigiana il proprio principale orizzonte di riferimento. Un insieme di realtà esteso e articolato. Esistono gli studi accademici, i saggi, le miscellanee, le riviste, che si rivolgono a cerchie di lettori più o meno specializzati, ma esiste – è bene ricordarlo – un ampio ventaglio di esperienze che si arricchisce anno dopo anno e che comprende opere letterarie, teatrali, film documentari, iniziative pubbliche di vario segno, progettualità innovative radicate nella memoria delle comunità locali. Un caso emblematico, che voglio citare, è quello del film “La lunga marcia dei 54” del regista rodigino Alberto Gambato, opera che ha consentito a molte persone, fuori dalla nostra provincia, di conoscere meglio la vicenda di Villamarzana e il suo significato per le genti del Polesine, attraverso voci per noi significative come quelle di Elios Andreini e Gianni Sparapan.

Nel volume dello storico britannico Philip Cooke, “L’eredità della Resistenza”, da poco tradotto nella nostra lingua, ci si interroga sulla portata del revisionismo e sulla rinnovata attualità della Resistenza, della lotta al fascismo nel nome di una nuova Italia: “Il successo dei libri di Pansa sulla questione della violenza del secondo dopoguerra dimostra in modo lampante che, nonostante i numerosi tentativi di affrontare il problema, non si è fatto abbastanza, e che ogni sforzo mirante a creare un’identità comune attorno alla Resistenza ha incontrato e incontrerà sempre ostacoli, fino a che non si sarà riusciti a spiegare e a concettualizzare adeguatamente questo particolare fenomeno. Ma se si riuscisse a inquadrare il problema della violenza nel contesto di una narrazione condivisa, sarebbe con ciò possibile creare un senso d’identità nazionale (ammesso che ciò sia desiderabile) attorno alla Resistenza? Se l’identità ‘nazionale’ è troppo complicata da conseguire, che dire delle identità locali o regionali, soprattutto in considerazione della natura spiccatamente regionale dell’identità della Resistenza? E quale dovrebbe essere, semmai, il ruolo degli storici in tale processo? La mia opinione, che ho espresso in questo libro – così conclude lo storico britannico -, è che gli storici italiani dovrebbero assumere un ruolo più attivo nella spiegazione del passato italiano, e che le loro considerazioni dovrebbero essere accessibili a un pubblico più vasto di quello che finora si è riusciti a coinvolgere”.

Anche in questo caso si tratta di una diagnosi chiara, che sembra non lasciare spazio a interpretazioni ambivalenti. Abbiamo appena sentito, seppur sintetizzate per ovvi motivi, le ragioni di uno storico italiano e quelle di uno storico straniero. Un dato su tutti. La lezione della Resistenza non può essere accantonata o sminuita, a meno di non voler ‘annacquare’ la qualità della democrazia in Italia. Emerge in primo piano, da queste parole, l’esigenza – per tutti noi – di testimoniare e di veicolare i valori dell’antifascismo nella realtà quotidiana, di tradurli in pratica e adattarli ad un mondo mutevole e complesso: una scelta che appare quanto mai doverosa e necessaria, se davvero vogliamo contribuire a consolidare l’impianto non soltanto materiale della nostra democrazia e se davvero vogliamo trasmettere ai più giovani l’inestimabile patrimonio politico e civile rappresentato dalla lotta partigiana e il suo originale contributo all’edificazione della Repubblica. Il dovere è quello della cultura, della formazione, dell’educazione del cittadino.

E questo obiettivo chiama in causa l’intera nostra comunità, come abbiamo visto, dai livelli istituzionali e dal mondo della scuola fino alle realtà sociali, politiche, sindacali, culturali localmente più avvertite e sensibili. I bisogni sono tanti. Le urgenze sono indifferibili. Qualche esempio: connettere memoria e storia; coinvolgere le persone e attivare percorsi di partecipazione alla vita pubblica; far crescere e maturare una rinnovata consapevolezza delle nostre radici; promuovere una cultura della comunità. Un modo di pensare e di agire, questo, che può e deve tradursi immediatamente in un programma concreto, in un progetto politico e culturale di ampio respiro, per salvaguardare la memoria di Villamarzana, per proiettarla nel futuro, per farla conoscere maggiormente fuori dai nostri confini, per esaltarne l’unicità e la centralità nell’identità del Polesine contemporaneo.

L’Italia e l’Europa devono tenere alta la guardia. Si tratta di un obbligo morale e politico. E’ questa la nostra agenda per i prossimi anni, lavorare per costruire una Europa politica, una Europa democratica e pluralistica, realmente ‘dei popoli’, che avvicini finalmente istituzioni e cittadini e respinga i miti sempre nefasti dei localismi chiusi, delle piccole patrie, della purezza del sangue. Il nostro continente è tuttora percorso da tentazioni isolazionistiche, autoritarie, come in Ungheria, ma è ormai terreno fertile un po’ ovunque, purtroppo, per il radicarsi di neo-razzismi, per neo-fascismi, per populismi che, dietro slogan di facile presa emotiva e dietro il cosiddetto ‘sciovinismo del benessere’, che si impone nei Paesi nordici, tornano ad agitare con insistenza lo spettro pericoloso eppure seducente del nazionalismo.

Come abbiamo visto nei giorni scorsi in Turchia, vicino a casa nostra, anche il fatto di scendere in piazza, anche manifestare pacificamente per i diritti e per la democrazia può diventare rischioso, rischiosissimo, come testimoniano le tragiche immagini del recente attentato e le decine e decine di giovanissime vittime di Ankara, colpite per aver creduto nella forza delle idee e della politica, colpite per aver creduto alla possibilità di uno stato laico, plurale, interetnico, realmente inclusivo, aperto alle istanze progressive della società civile e delle nuove generazioni. Lo scenario drammatico che abbiamo qui descritto conferma l’attualità della lezione resistenziale e ci dice che l’antifascismo non può essere argomento consegnato ad un – per quanto glorioso – passato. Esso è un patrimonio del presente. Questi valori, che ci uniscono – che devono unirci – oggi come europei, potranno essere la base, il fondamento solido di una Italia e di una Europa costruttrici di pace e di progresso per i prossimi decenni. Ci si salva, ci si può salvare, tutti insieme!

Non sottovalutiamo chi si propone di predicare apertamente l’odio, la supremazia di una parte, il disprezzo per i più deboli. Pensiamo alla questione dei migranti, che oggi assume una valenza paradigmatica. Un nodo che può essere affrontato e risolto dalla politica, con misura, responsabilità, dialogo, aprendo alla solidarietà, chiamando in causa le nostre migliori energie e chiedendo a gran voce un disegno comune, una strategia veramente europea, capace di arginare vecchi e nuovi razzismi, vecchi e nuovi fascismi. Per qualcuno, invece, una vicenda epocale come quella che riguarda i flussi migratori da un continente all’altro è solo un buon argomento per ravvivare il fuoco di una permanente campagna elettorale. Per altri, addirittura, il punto su cui cercare di coagulare gli istinti peggiori delle nostre comunità e riportarci indietro, ai tempi della “Difesa della razza”.

In Polesine, nelle scorse settimane, sono ricomparsi simboli e fraseologie ampiamente condannati dalla storia e che forse si credevano del tutto residuali: si tratta di parole d’ordine, bandiere, emblemi che probabilmente non erano mai spariti del tutto e che anche oggi paiono attecchire preferibilmente laddove l’ignoranza colpevole del passato e la crisi della rappresentanza democratica si saldano con la paura del diverso, con la mancanza di strumenti culturali, con il venir meno di tradizionali riferimenti politici e ideali. E’ il caso di un movimento di estrema destra come Forza nuova e dei suoi reiterati tentativi di inserirsi nella mobilitazione contro i migranti e i richiedenti asilo, ricercando interlocuzione con soggetti ritenuti ‘presentabili’, fomentando un clima di continua emergenza, alternando sapientemente toni e dichiarazioni e, infine, richiamando – specialmente nell’uso dei social media – le tristi vestigia di un fosco e indifendibile passato.

Il nostro invito, rivolto veramente a tutti, è questo: non voltiamoci dall’altra parte, non cediamo all’indifferenza, non sottovalutiamo quanto si muove in certi settori della nostra società. Nella nostra provincia, ne siamo convinti, ci sono già gli anticorpi che possono sconfiggere i germi di ogni potenziale deriva estremista e ribadire il nesso indissolubile tra Polesine e antifascismo, tra memoria delle comunità e storia nazionale, così fortemente testimoniato qui a Villamarzana.

Frassinelle, centro della nostra provincia, a pochi chilometri da dove stiamo parlando, è diventata un po’ un luogo simbolo, il terreno dove negli ultimi mesi si sono confrontate paure, proteste, aspettative divergenti, ma anche idee, spunti concreti per la costruzione di pratiche e iniziative rivolte alla creazione di una possibile convivenza. Sono già all’opera, qui come altrove, volontari, operatori, associazioni e reti di associazioni, un insieme variegato di soggetti di differente orientamento, eppure uniti dalla volontà di sostenere i più deboli indipendentemente dalla loro provenienza, dalla volontà di non cedere al ricatto della paura, di quella ‘guerra tra poveri’ sempre funzionale al restringimento degli spazi di partecipazione e di crescita collettiva. Non è retorica, è doveroso confrontarsi con i timori e le preoccupazioni legittime delle persone, non dobbiamo lasciare da sole queste comunità, ma dobbiamo nello stesso tempo avere il coraggio e la capacità di favorire il dialogo, di far sentire la presenza delle istituzioni e di spiegare e ribadire che esiste un dovere di accoglienza verso chi scappa dalle guerre e dalla fame. Lo dice la nostra Costituzione, lo dicono le leggi dell’umanità, lo ha ricordato con parole molto chiare il segretario delle Nazioni unite Ban Ki-moon, celebrando giovedì nell’aula di Montecitorio il sessantesimo anniversario dell’entrata dell’Italia nell’Onu.

Il Parlamento, pur all’interno di una vivace e spesso non facile dialettica tra le diverse posizioni, sta cercando di intervenire, di trovare utili correttivi, difendendo la nostra memoria storica da aberrazioni come quelle del negazionismo e sostenendo alcune iniziative legislative che si pongono l’obiettivo di accompagnare il cambiamento che attraversa la nostra società. Nei giorni scorsi si è provveduto ad estendere, con il voto alla Camera, il diritto di cittadinanza ai ‘nuovi italiani’. Un fatto di civiltà, l’introduzione dello ius soli, segnato dall’adesione di una larga maggioranza parlamentare. Parallelamente, è poi arrivata la scelta di punire come aggravante il negazionismo, dando un chiaro segnale a chi propaga pubblicamente l’odio per l’altro, l’odio per il diverso, l’antisemitismo e non solo. Il negazionismo – nel caso della Shoah, ma esso è purtroppo applicabile a diversi genocidi e crimini contro l’umanità – è così riconosciuto come una forma di vero e proprio antisemitismo, rappresentando di per sé una grave lesione alla tutela della dignità della persona.

Mettere in campo le strategie migliori per arginare e per sconfiggere il diffondersi di simili teorie rimane davvero un compito essenziale delle istituzioni democratiche che, al tempo stesso, per loro intrinseca natura, hanno il dovere di salvaguardare il pieno diritto alla libertà di opinione, sanzionando piuttosto quei comportamenti, condotte, attività che utilizzano l’odio come motore per la propria propaganda ideologica e si rifanno quasi sempre ad un vergognoso passato che non può e non deve tornare.

Esiste davvero, allora, una continuità ideale tra la testimonianza eloquente dei martiri di Villamarzana e il cammino della nostra democrazia, il cammino della civiltà italiana ed europea. Non dimentichiamolo! Vogliamo ripensare brevemente a quei terribili momenti, all’attesa, alla paura e al terrore che hanno accompagnato l’eccidio dei 43 martiri, che vedevano improvvisamente sparire con il bene più prezioso affetti, sogni, speranze. Ai caduti di Villamarzana, ma anche di Castelguglielmo, di Villadose, di Stienta, del Polesine e dell’Italia, vada il nostro pensiero e la nostra più alta riconoscenza, per questo tremendo sacrificio. Viva l’Italia, viva la Repubblica, viva la memoria dei caduti per la libertà e per la patria!

Diego Crivellari